Nel calcio, così come nella vita e in qualsiasi altro sport,
esistono momenti il cui ricordo è destinato a rimanere immortale, eterno, indelebile
nel tempo. Momenti che appartengono alla storia, che si tramandano ai posteri e
di cui ciascun tifoso va fiero ed orgoglioso. Se sei del Celtic, la data è il
25 maggio 1967. La formazione –in ordine dal numero 1 al numero 11- quella
formata da Simpson, Craig, Gemmell, Murdoch, McNeill, Clark, Johnstone,
Wallace, Chalmers, Auld, Lennox. O se preferite The Lisbon Lions.
Segni particolari: tutti giocatori scozzesi nati e cresciuti
a non più di 30 chilometri da Parkhead, ai più noto come Celtic Park. In
panchina Jock Stein, primo manager protestante nella storia della società.
Per un tifoso dei Bhoys
quella data rappresenta il punto più alto mai raggiunto nei 127 anni di vita
del club cattolico di Glasgow. E quegli uomini –ancor prima che calciatori- gli
eroi che resero possibile una tale impresa. Quando il Celtic divenne la prima
squadra britannica a vincere la Coppa dei Campioni contro la ben più quotata
Inter del catenacciaro Helenio Herrera. Per il Celtic rimane anche l’unica
messa in bacheca, ciliegina sulla torta di una stagione in cui il club vinse
tutto. Il 1966-67 fu infatti l’annus
mirabilis vissuto al Parkhead: campionato, coppa nazionale, Coppa di Lega e
Glasgow Cup, tutti trofei finiti nella bacheca dei Bhoys. E in ultimo lei, la Coppa dei Campioni, il traguardo che
ogni tifoso ed ogni giocatore sognano prima o poi di poter raggiungere.
Eppure il processo che portò a un simile obiettivo fu lungo,
complicato e ricco di insuccessi. Il Celtic, alla vigilia della stagione
1964-65, viveva oscurato dalle gesta dei cugini dei Rangers, che arraffavano
trofei a destra e a manca, lasciando ai Bhoys
solo le briciole. I bianco-verdi non vincevano un campionato da più di dieci
anni, la gente a Parkhead iniziava a spazientirsi e alcuni giocatori erano sul
piede di partenza. Tutto lasciava presagire al peggio, quando nel gennaio 1965
il presidente Kelly fece la mossa che cambiò il destino dei Celtic e dei suoi
tifosi: esonerò Jimmy McGrory (che da giocatore mise a segno con i Bhoys 522
gol tra il 1922 e il 1937, record tuttora imbattuto) e chiamò sulla panchina
un’altra vecchia conoscenza: Jock Stein, ex giocatore del Celtic dal 1951 al
1956 (148 presenze e 2 gol), affidandogli il compito di risollevare una piazza
quasi sull’orlo del baratro. Stein aveva fatto benissimo al Dunfermline,
vincendo una Coppa di Lega e salvando la squadra dalla retrocessione. Per
averlo, si rese necessario battere la concorrenza dell’Hibernian e del Wolverhampton, club alla ricerca di un sostituto
del manager Stan Cullis. La spuntarono i bianco-verdi di Glasgow e gli effetti
della cura Stein non tardarono ad arrivare. Il campionato era ormai perso, così
ci si concentrò sulla Coppa. Il Celtic arrivò in finale e –ironia della sorte-
si trovò davanti proprio il Dunfermline. Stein non si fece intenerire dalla sua
ex squadra e dispose in campo una formazione arrembante, che diede l’anima e
lottò su ogni pallone. Gli sforzi furono ripagati, i Bhoys vinsero 3-2 e in città esplosero i festeggiamenti come non si
vedevano da tempo. I tifosi capirono che qualcosa di grande stava per iniziare,
che quel successo sarebbe stato solo il primo di una lunga serie. Di lì a
qualche mese avrebbero avuto ragione.
Nella stagione 1965-66 arrivò infatti il double, con la conquista del campionato
dopo un’attesa durata 12 anni e della Coppa di Lega in un Old Firm Final vinta
per 2-1 e caratterizzata da pesanti scontri nel dopogara. Il meglio doveva
ancora venire e sarebbe giunto nell’anno 1966-67, quello impresso nella mente
di ogni tifoso del Celtic e che nessuno potrà mai dimenticare.
Grazie al titolo vinto la stagione precedente, i Bhoys si guadagnarono la possibilità di
disputare la Coppa dei Campioni, trofeo esclusivo allora riservato all’elite
del calcio europeo.
Il Celtic fu plasmato a immagine e somiglianza di Stein,
disputando un cammino ottimo attraverso una tenacia e dei valori tecnici
invadibili. La formula dell’allora Coppa dei Campioni non prevedeva la fase a
gironi, ma un primo turno eliminatorio (composto di andata e ritorno) seguito
dagli ottavi di finale, fino ad arrivare alla finale. Vi presero parte 33
squadre e la marcia trionfale del Celtic iniziò contro lo Zurigo, battuto per
2-0 e 0-3. Seguirono gli ottavi di finale, dove fu la volta del Nantes,
regolato con un doppio 3-1. Le cose si complicarono nei quarti, dove il
Vojvodina fece sudare le classiche sette camicie ai ragazzi di Stein. L’andata
in terra serba vide i Bhoys uscire sconfitti
per 1-0, ma nella gara di ritorno -in un Parkhead pieno all’inverosimile- un
gol allo scadere fissò il punteggio sul 2-0, aprendo le porte della semifinale.
Tra il Celtic e la finale di Lisbona c’erano i cechi del Dukla Praga. In Scozia
terminò 3-1, risultato difeso senza troppi problemi nel secondo match nella
capitale ceca. Finì 0-0 e il Celtic staccò il biglietto per il Portogallo. Se
la sarebbe vista con l’Inter, che aveva sbattuto fuori i campioni uscenti del
Real Madrid. Una finale da sogno, che nessuno si sarebbe mai immaginato
soltanto due anni prima.
Stein sapeva dei numerosi sacrifici che migliaia di tifosi
avrebbero sostenuto per non perdersi quel momento storico. Raccomandò loro di
comportarsi bene, per non intaccare una serata che di lì a poco sarebbe
diventata magica. Sapeva che il suo gioco spumeggiante e aggressivo si sarebbe
scontrato con il catenaccio eretto da Herrera. Eppure, non si incaponì
studiando schemi e tattiche per scardinarlo. Disse semplicemente ai suoi
giocatori “Andate in campo e divertitevi”.
25 maggio 1967, Estadio Nacional di Lisbona, ore 17.30. Il
Celtic mandò sul terreno di gioco 11 giocatori scozzesi - i cui numeri non erano
nemmeno disegnati sulla schiena, ma sui pantaloncini - coltivati all’ombra di
Parkhead, disposti secondo l’arrembante modulo 4-2-4. L’inizio non fu
incoraggiante, con l’Inter che passò in vantaggio dopo pochi minuti grazie a un
calcio di rigore di Mazzola. I Bhoys
pareggiarono a metà della ripresa con Gemmell (tiro al volo dal limite dell’area)
e piazzarono la zampata vincente a 5’ dalla fine con una deviazione sottoporta
di Chalmers. L’Inter non ebbe il tempo materiale per organizzare l’arrembaggio
finale. Finì 2-1 e quando l’arbitro emesse il triplice fischio una folla
bianco-verde ebbra di gioia si riversò in campo a festeggiare. Il Celtic entrò
nell’olimpo del calcio e divenne e la prima squadra britannica a salire sul
tetto d’Europa. Tutto il popolo irlandese, da Dublino a Glasgow, fece festa nei
pub e nelle strade, celebrando quegli eroi di Lisbona che passarono alla
cronaca come The Lisbon Lions per la
tenacia e la voglia di vincere dimostrate in quella finale. 11 scozzesi doc,
cresciuti tirando calci al pallone a non più di 30 chilometri da Parkhead,
diretti dal primo manager non cattolico nella storia del Celtic che elogiò a
fine partita i suoi ragazzi: «Abbiamo
vinto meritatamente, ce l’abbiamo fatta giocando un calcio meraviglioso, puro e
fantasioso. Sono l’uomo più felice del mondo, soprattutto per il modo con cui
abbiamo vinto». Un’impresa vera e propria, segno di un football d’altri
tempi, lontano dal denaro, dalle pratiche di business e dal calcio globale di adesso, quando un manipolo di
uomini coltivati in casa volò laddove osano le aquile, scrivendo la favola più
bella che ogni padre di fede bianco-verde sogna di raccontare un domani al
figlio. Si disse inoltre che negli spogliatoi dei Bhoys avvenne un emozionante dialogo tra Stein e Bill Shankly,
entrambi ex minatori e scozzesi fino al midollo: «Jock, adesso tu sei immortale», avrebbe sussurrato al collega il
manager dei Reds.
Non poterono esserci parole più adeguate. Il trionfo in
Coppa dei Campioni non fu isolato: arrivarono tra il 1966 e il 1974 anche nove
titoli nazionali consecutivi, cinque FA Cup, cinque Coppe di Lega e tre
Glasgow. A fare da cornice, un’altra finale
e due semifinali di Coppa dei Campioni. Ai Lisbon Lions fu dedicata una stand
del Celtic Park e nel 2007 si festeggiò il quarantennale di quella magica
serata. Quel successo che ancora oggi continua a evocare sentimenti di
nostalgia per un passato che non c’è più, un calcio di veri valori, di cuore,
grinta e coraggio, giocato prima ancora da uomini che da calciatori.
Straordinariamente romantico e contradditorio, che vide un protestante condurre
l’orgoglio cattolico di Glasgow dove nessuno era mia riuscito prima. Un calcio fatto di eroi, consegnati alla
storia e da lei resi immortali. Proprio come Shankly disse a Stein…
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