Un
approfondimento sul concetto di Support your local team, tanto radicato in
Inghilterra quanto poco conosciuto ed attuato in Italia. Un viaggio indietro
nel tempo per capire l’origine di tifare per i colori della propria città, con
un occhio di riguardo all’avvento della globalizzazione che ha troppo spesso
intaccato l’identità di alcuni club. Dal tifoso protagonista al tifoso
spettatore, analizziamo l’evoluzione del calcio inglese dalle origini ai giorni
nostri
«Il calcio in Inghilterra non è un
fenomeno, è un fatto della nostra vita quotidiana. Si è considerati più
eccentrici se si ignora il football, piuttosto che se non ci si dedica
interamente la propria esistenza. Il modo in cui pratichiamo questo sport, la
maniera in cui lo gestiamo e la considerazione che gli riserviamo riflettono in
pieno il tipo di comunità che rappresentiamo» [Arthur
Hopcraft, The Football Man]
Non un semplice sport
Il
football – come lo chiamano da quelle parti – costituisce un’autentica
religione che va ben al di là del puro aspetto sportivo. Esso è il collante che
– in un contesto urbano più o meno vasto ed eterogeneo – unisce diverse persone
sotto un’unica comunità, la cui bandiera è formata dai colori della città di
appartenenza. Questo forte senso di aggregazione sta alla base del concetto di
“Support your local team”, che
tradotto letteralmente significa “Sostieni la tua squadra locale”, un modo di
tifare tipicamente britannico. In tutti i paesi d’Oltremanica, ma soprattutto
in Inghilterra, questa concezione del tifo è fortemente radicata e continua a
tramandarsi di padre in figlio. Ci sono città in cui si nasce con la bandiera
della squadra locale già appesa al passeggino ed altre ancora dove la
convivenza di due club rende difficile scegliere da che parte stare. In quel
caso le alternative possibili sono due: seguire le orme calcistiche della
famiglia oppure appoggiare i rivali cittadini, situazione che si presenta
spesso in città come quelle di Liverpool, Manchester, Birmingham, Nottingham o
Bristol giusto per citarne alcune.
A difesa della propria città
Ben
più difficile, quanto raro, è vedere cittadini parteggiare per la squadra della
città nemica per eccellenza. In realtà urbane come Newcastle, per esempio, è
assai improbabile conoscere qualcuno che abbia il coraggio di tifare per
l’acerrima rivale Sunderland e viceversa; così come a Liverpool è pressoché
impossibile trovare qualche scouse
che sostenga una qualsiasi delle due squadre di Manchester, vista la forte
inimicizia che accompagna le due città.
Ma
gli esempi potrebbero proseguire a oltranza, con i conflitti che riguardano
anche Cardiff e Swansea, Nottingham e Derby oppure le località costiere di
Portsmouth e Southampton.
In
tutti questi casi, prima ancora dell’attaccamento alla squadra locale, prevale
l’orgoglio di sentirsi membri di una determinata comunità e di rimarcare la
propria superiorità rispetto alla città nemica. Solo allora entra in gioco il
football, strumento d’eccellenza per riversare sul campo i numerosi
campanilismi presenti tra le diverse entità territoriali.
Un po’ di numeri
Per
avere un’idea di quanto sentito sia il concetto di “Support your local team” basta guardare all’ attendance media stagionale delle squadre iscritte alle prime
quattro divisioni nazionali inglesi.
Possiamo
notare una media spettatori all’anno di circa 8mila e 5mila presenze
rispettivamente per club di Football League One e di Football League Two, con
picchi di 17mila spettatori per quelli di Championship, oppure cifre
incredibili che portano anche 9-10mila tifosi a macinare centinaia di
chilometri per seguire i propri beniamini in trasferta. Parliamo di città
aventi dalle 35mila alle 500mila unità circa, la cui popolazione calciofila
segue e sostiene unicamente la propria squadra locale, concedendosi al massimo
di “fare il tifo” alla TV per una grande della Premier League.
Se
guardiamo alle partecipanti della massima serie inglese, l’attendance media si stagna sulle 36mila presenze fisse, con minimi
di 20mila unità per realtà più piccole (per esempio lo Swansea, la cui città
conta 170mila abitanti) a massimi di 75mila spettatori di media che seguono
settimanalmente a Old Trafford il Manchester United, il cui borgo urbano
contiene mezzo milione di anime.
Vi
sono poi club di fama nazionale, come per esempio il Liverpool, l’Arsenal e il
sopra citato Manchester United, che per via degli innumerevoli successi in
patria hanno racimolato fans un po’ ovunque, pur senza slegarsi eccessivamente
dal contesto urbano di appartenenza. Red Devils a parte – il cui zoccolo duro è
presente nella periferia e non nel centro cittadino – si tratta per lo più di
eccezioni che non sminuiscono comunque il significato di fondo alla base del “Support your local team”.
Gli esempi della capitale
Quando
entrano in gioco gli innumerevoli team presenti a Londra, ecco che la
suddivisione in quartieri della città fornisce un quadro per capire la
territorialità specifica (salvo rari casi in cui questa “regola” non viene
rispettata) di ogni singola squadra; se si è del nord, si sarà dell’Arsenal,
del Tottenham o del più piccolo Barnet, se invece si vive nell’elegante zona
del West London si opterà per una tra Chelsea e Fulham (sebbene entrambe
condividano lo stesso quartiere) oppure Queens Park Rangers e Brentford; più
difficile la scelta per chi abita nel sud di Londra, con Crystal Palace, Charlton,
Millwall e Wimbledon a farla da padroni. Infine, nell’East End londinese troviamo i colori claret and blue del West Ham in
coabitazione con altre realtà minori come Leyton Orient e Dagenham &
Redbridge.
Forse
è proprio nella Londra del calcio che il senso di appartenenza ad un quartiere
e alla squadra che lo rappresenta raggiunge l’apice, in quanto rimarca
l’orgoglio di distinguersi dalle altre realtà limitrofe e affermarsi gli unici
e veri padroni della città. Si verifica così il perenne tentativo di rimarcare
quel “Pride of London” reso possibile
dai frequenti incroci che le squadre della capitale (soprattutto quelle che
militano in Premier League) hanno tra loro nel corso della stagione.
Agli albori del Support your local
team
Facciamo
un passo indietro nel tempo: come è nato e come si è sviluppato il concetto di
“Support your local team”, poi
diffusosi a macchia d’olio in tutte le nazioni d’Oltremanica?
Torniamo
al 1886, anno di fondazione della Football Association (federazione calcistica
inglese che amministra il gioco del calcio in tutto il Paese), i cui ideatori –
membri delle esclusive scuole private inglesi – decisero di codificare delle
regole e dare un impianto organizzativo a quello che allora era un semplice
passatempo per i mesi invernali che impedivano di praticare il tanto amato
cricket.
Questi
signori avrebbero reso il football lo sport nazionale d’Inghilterra, che
troverà la sua massima diffusione soprattutto nella working class, il proletariato urbano, a differenza di rugby e
cricket che resteranno di priorità delle upper
classes.
E
non a caso la diffusione del calcio raggiunse dapprima le città industriali,
fino a spargersi poi in tutto il resto della nazione, con il primo campionato
che venne disputato nel 1888-89 dalle dodici squadre del Nord dell’Inghilterra
e delle East Midlands.
Ma
come si spiega un forte attaccamento per la squadra della propria città? La
risposta – che tra l’altro costituisce il nodo cruciale della questione –
emerge dal libro Sport and the British
dello storico Richard Holt. Nel suo trattato, lo scrittore mostra che «il calcio è il mastice per tenere insieme le
comunità locali, per conferire loro un senso di identità. E’ a buon mercato,
facile da capire e scalda gli animi. In una società come quella inglese dell’epoca
vittoriana, travolta dalla rivoluzione industriale, che ai tranquilli ritmi
della vita rurale sostituiva la frenetica attività nella fabbriche della città,
c’è bisogno dell’attaccamento a una qualche entità rassicurante e familiare. E
cosa c’è di meglio di una squadra di calcio per sentirsi parte di qualcosa?».
La
matrice proletaria, essenza di questo modo di intendere il football, coinvolse
in seguito le altre classi inglesi, in modi e tempi diversi. Fino agli anni ’90
lo zoccolo duro di ogni tifoseria era formato da persone provenienti dalle working class; non a caso, inoltre, le
degenerazioni del tifo trovavano la loro perfetta immagine nell’hooligan,
solitamente membro della classe lavoratrice.
Un concetto entrato in crisi con
l’avvento della globalizzazione
A
partire dagli anni duemila – con l’avvento della televisioni private e
l’aumento considerevole del prezzo dei biglietti per scoraggiare il fenomeno
hooligans – si è assistito ad un momento di crisi del “Support your local team”, specialmente nelle squadre aventi un
grande bacino d’utenza. La figura del tifoso della working class ha lasciato lentamente spazio alla media ed alta
borghesia, alla quale il football appare un puro entertainment dai connotati dello show business.
Così
adesso a popolare le gradinate di squadre come Manchester United, Manchester
City, Chelsea o Arsenal troviamo sempre più turisti stranieri – emiri,
giapponesi o scandinavi – che nel loro pacchetto all inclusive vantano anche la
possibilità di potersi permettere un biglietto salatissimo per assistere a un
match di fascia A, quelli che noi chiamiamo le partite di cartello.
Oppure
ancora esponenti di grandi multinazionali che pensano bene di affittare uno dei
tanti corporate box presenti in tutti
gli stadi d’Oltremanica al prezzo di 3mila sterline l’uno tramite le compagnie
per le quali lavorano. Il tutto unicamente per parlare d’affari, magari dando
qualche occhiata agli assist di Ozil o ai dribbling di Hazard.
La
principale responsabile di questa trasformazione del calcio in un semplice
intrattenimento è stata la globalizzazione, che ha reso questo sport un
prodotto del mercato globale, spingendo i grandi club ad assumere i tratti
delle multinazionali e cercare proseliti all’estero. E’ in tale scenario che
sono esplose le dirette tv delle maggiori squadre inglesi – ed europee in
generale – dall’altra parte del mondo, con cinesi e americani a formare i
principali fruitori di questo nuovo, ed errato, modo di concepire il calcio. Il
merchandising si è diffuso in ogni
angolo del globo e costituisce una delle maggiori fonti di sostentamento
economico per una qualsiasi società professionistica.
Il
tifoso rimane sempre un “fruitore di calcio”, ma perde la passione a favore di
una forte propensione al consumo. Ed è questo che spiega al meglio perché molto
spesso in Premier League il tifoso vero – quello che va allo stadio per
sostenere la propria squadra – resta tagliato fuori per far posto alla figura
del ricco magnate straniero che può appoggiare le proprie natiche su un palco della
tribuna d’onore disquisendo di questo e quell’altro con il suo vicino di posto.
Ovviamente senza capire nulla di quello che realmente è il football.
Se
da un lato il “Support your local team”
entra in crisi per le maggiori squadre del panorama inglese – ormai ridotte a
merce sottomessa al dio denaro – nelle realtà minori – quelle a partire dalla
Football League One in giù – il concetto pare rafforzarsi e conservare quel
senso di purezza che lo caratterizza. Lontano dall’odore dei soldi e dalle
finalità commerciali di magnati senza scrupoli, le squadre locali di queste
cittadine inglesi possono contare su un buon numero di tifosi che dedicano
anima e corpo ai propri colori. E che non hanno bisogno di sedersi in tribuna
d’onore o avere biglietti omaggio per sentirsi parte integrante della loro
comunità.
FC United of Manchester, Wimbledon
e Portsmouth: cosa non si fa per amore dei propri colori
Nonostante
tutto, però, il calcio inglese è ancora capace di raccontare le tanto decantate
favole che piacciono agli amanti più romantici di questo sport. Sebbene anche
la Premier League sia sempre più in mano a investitori stranieri, vi sono tre
esempi lampanti di quanto l’amore per la propria squadra sia più forte persino
dei soldi.
Il primo caso è rappresentato dal FC
United of Manchester, club fondato il 19 maggio 2005 da una quarantina di ex
frequentatori della Stretford End, la storica curva dell’Old Trafford cuore del
tifo Red Devils. Il motivo? I tanti
malumori e il forte dissenso verso Malcolm Glazer, imprenditore americano che
proprio nel 2005 acquistò la quasi totalità delle azioni del Manchester United,
accollando buona parte degli 830 milioni di sterline necessari all’affare sulle
spalle dello stesso club.
Tale evento fu visto come un vero e
proprio "attentato alla tradizione": era infatti inaccettabile che
uno straniero entrasse a far parte di un mondo (e di una storia) che non gli
sarebbe potuta mai appartenere, ma ancora di più che fosse permesso ad un
singolo individuo di acquistare personalmente un club, di fatto espropriandolo
ai tifosi.
La politica del FC United of Manchester
è molto chiara: il club appartiene ai tifosi che hanno creduto nel progetto
investendo la quota stabilita dal board (12 sterline all'anno). Ad
ogni sostenitore spetta un' identica quota e ognuno di essi (nei limiti del
possibile) ha la facoltà di esprimere decisioni sul club. Il prezzo di un
abbonamento costa solo 90 sterline all’anno e l’FC United of Manchester ha
ottenuto sin qui donazioni da circa 4000 sostenitori
Lo statuto del club non prevede né la possibilità che un singolo tifoso possa acquisire l'intera società, né che gli eventuali proventi siano ripartiti tra i possessori della membership. Le sponsorizzazioni sono accettate, ma non è permesso inserire loghi sulle maglie dei giocatori.
Lo statuto del club non prevede né la possibilità che un singolo tifoso possa acquisire l'intera società, né che gli eventuali proventi siano ripartiti tra i possessori della membership. Le sponsorizzazioni sono accettate, ma non è permesso inserire loghi sulle maglie dei giocatori.
La squadra milita attualmente nella
Premier Division della Northern Premier League (settima divisione del calcio
inglese, equivalente della nostra Promozione) e continua a coltivare il suo
sogno contro il calcio moderno, sempre più snaturato della sua passione in nome
del business.
Nell’estate del 2002 si era già
assistito alla creazione di un club fondato dai tifosi e chiamato AFC
Wimbledon. Tuttavia, in quel caso la situazione era ben diversa e oserei dire
più grave rispetto alla precedente.
Accadde che la dirigenza dell’allora
Wimbledon F.C. decise di spostare la squadra in un’altra cittadina, a Milton
Keynes, distante 90 kilometri da Wimbledon per finalità puramente commerciali.
I
tifosi la presero malissimo e alcuni di loro fondarono un nuovo Wimbledon,
chiamandolo A.F.C. Wimbledon (a football club proprio per rivendicare e
ribadire l’origine dal basso di questa nuova squadra). La società è infatti «formed
by the fans, owned by the fans, and run by the fans», ovvero creata dai
tifosi, di proprietà dei tifosi e condotta dai tifosi.
Il
trasferimento del Wimbledon F.C. nella nuova cittadina portò alla nascita della
società calcistica nota come Milton Keynes Dons F.C., che attualmente gioca in
League One, mentre il neo-nato AFC Wimbledon, partendo dai dilettanti, negli
anni è arrivato a calcare i campi della League Two, spinto dalla passione
encomiabile dei propri meravigliosi tifosi.
Esiste
infine il caso del Portsmouth F.C., squadra che rischiò il fallimento
nell’aprile del 2013. A partire dal maggio 2009, infatti, la società visse
forti difficoltà economiche, retrocessioni e finì addirittura in
amministrazione controllata. Quando tutto lasciava pensare a un fallimento del
club, ecco che invece la trattativa per l’acquisto della squadra da parte dei
tifosi andò in porto, grazie alla creazione della trust (associazioni di supporters ad azionariato popolare)
chiamata Pompey Supporters Trust.
Dal
1992 a oggi si sono formate più di 120 trust, le quali in 19 occasioni (tra cui
questa) sono riuscite a salvare club sull’orlo del precipizio, riuscendo in
alcuni casi persino a rilevare la maggioranza delle azioni delle società in
difficoltà.
Cardiff City e Hull City: quando i soldi
vanno contro la tradizione
Non
tutte le storie hanno però un lieto fine ed accanto alle favole sopra narrate
esistono purtroppo altre vicende in cui
la parola business ha rischiato fino all’ultimo di avere la meglio sulla storia
e la tradizione dei club.
Gli
esempi ci giungono questa volta dalla Premier League e portano i nomi di
Cardiff City e Hull City.
I
primi sono stati oltraggiati del proprio simbolo e dei colori sociali –
ininterrottamente utilizzati per 104 anni – dall’arrivo dell’imprenditore
malese Vincent Tan, che ha deciso di rimuovere il colore blu dalle maglie e
dallo stemma in favore del rosso. Ma non solo: Tan ha voluto poi cambiare il
logo del club, relegando in un angolo il caratteristico bluedbird per fare
posto a un dragone rosso, molto più appetibile nel mercato asiatico rispetto al
fragile pennuto.
Il
folle proprietario del Cardiff ha giustificato questa sua inaccettabile scelta
sostenendo che – per diffondere in maniera più efficace l’immagine della squadra – al
colore blu è preferibile il rosso, considerato benaugurante, come sarebbe
dimostrato dal maggior seguito di squadre come Liverpool e Manchester
United, rispetto ad altre dello stesso livello come Chelsea e Manchester City.
Quando
tutto sembrava però volgere al peggio e togliere ogni speranza ai tifosi, ecco
il passo indietro della stesso Tan. Si ritorna allo stemma storico e al colore
blu. La vittoria della passione sul marketing. Il Cardiff City tornerà infatti
a vestire la tradizionale divisa al posto di quella rossa che era stata
adottata nel 2012 per favorire l'espansione del club sui mercati asiatici. Ma
non solo: ci sarà anche il ritorno nel logo societario dell'uccello blu, vero
simbolo del club, che aveva lasciato spazio al dragone rosso adottato di
recente. «Lo stemma del club verrà
ridisegnato per rispecchiare la predominanza dell'uccello blu, così da
celebrare la storia e la tradizione del club. Vorrei incorporare anche elementi
che rappresentano la mia cultura e il mio credo, che spero siano rispettati»,
queste le parole del presidente Tan sul sito ufficiale della squadra che hanno
fatto tirare un sospiro di sollievo a tutti i tifosi Bluebirds.
Non
se la sono passata certo meglio i tifosi
dell’Hull City, il cui patron egiziano Assem Allam ha provato in tutti i modi a
cambiare la denominazione della società
da Hull City ad Hull Tigers, motivando questa sua scelta con la necessità di
trovare nuove fonti di introiti (il club è uno dei pochi in Gran Bretagna a non
avere uno stadio di proprietà) e con il fatto che «la denominazione City appare troppo banale e ordinaria».
Parere
completamente opposto per i tifosi che – non avendo alcuna intenzione di subire
passivamente un cambio di denominazione della loro squadra con 109 anni di
storia alle spalle – hanno dato vita ad un movimento di protesta contro la
dirigenza, denominato “City Till We Die”,
con l'obiettivo di far rinunciare Allam dal suo proposito. I supporters
dell’Hull City hanno portato la loro protesta direttamente allo stadio, esponendo
striscioni con su scritto "Siamo Hull City", oppure: "Siamo
Hull City, moriremo quando vorremo". Allam, in tutta risposta, ha
definito "hooligans" questi tifosi, facendo sapere loro che «se
proprio vogliono, possono morire appena lo desiderano»
Il
patron egiziano ha infatti investito ben 60 milioni di sterline per salvare il
club dal fallimento economico e riportarlo in Premier League. «Sono un uomo semplice – ha spiegato – se vogliono che me ne vada, beh... in 24 ore
il club è in vendita». Ma i tifosi che protestano puntano a riunire sotto
la loro ala l'intero tifo arancio-nero, attraverso una fusione con i “Tigers Co-op, Hull City Supporter – la
principale associazione di fan dell'Hull City oggi esistente – con l'obiettivo
primario di acquistare una quota di partecipazione delle azioni del club ed
avere un ruolo importante nella valorizzazione dello stadio e dell’area circostante,
tenendo dei rapporti cordiali con la dirigenza.
Nel
marzo 2015 arriva però la decisione ufficiale della Football Association: no al
cambio di nome, respinto la richiesta formale di Allam, sconfitto e deluso. Il
club, dunque, continuerà a chiamarsi almeno per ora Hull City AFC, come è stato da sempre.
Allam
ha comunque promesso battaglia, visto anche che nella nota della FA si legge
che il proprietario del club potrà ancora richiedere il cambio del nome per la
prossima stagione calcistica. La guerra continua e chissà cosa il futuro
riserverà all'Hull City. Intanto, per una volta, il popolo fa festa, difendendo
la tradizione ed i valori di sempre. Il marketing, per adesso, può attendere.
Nel
football, specialmente in realtà piccole e non eccessivamente ricche (Cardiff
340mila abitanti, Hull 256mila) sono proprio i tifosi di questa o quella città
il motore che permette a una società di andare avanti anche tra mille
difficoltà, grazie unicamente alla passione per i colori di appartenenza. E non
importa se la squadra ha poco appeal all’estero, meglio soffrire per qualcosa
di cui ci si sente parte piuttosto che gioire per una squadra di cui non si
conosce nemmeno la storia.
E in Italia?
Nel
nostro Paese il concetto di “Support your
local team” è purtroppo poco attuato. In primis poiché le grandi del calcio
italiano – Juventus, Milan e Inter – contano una vasta schiera di sostenitori
al di fuori dei confini cittadini ove esse sorgono. In particolare, la Juventus
ha la stragrande maggioranza dei tifosi sparsi in tutta Italia per via dei
numerosi successi riscossi in patria (fatto analogo con quanto accade in
Inghilterra per Manchester United e Liverpool), mentre nella città di Torino
prevale la fede granata.
In
Italia vige inoltre la moda di snobbare le squadre locali perché prive di
blasone e con scarsa attenzione mediatica a discapito dei grandi club – distanti
anche centinaia di chilometri dalla propria zona – che per un motivo o per
l’altro riescono a richiamare un certo interesse nazionale.
Accade
poi, paradossalmente, che una società seguita a malapena in Serie B da 4mila
spettatori a partita (come il Sassuolo nella stagione 2012-13) riesca quasi a
triplicarne il numero nel momento della salita in Serie A, salvo nuovamente
dimezzare le presenze una volta tornata in serie cadetta (è il caso del Novara,
con una media-spettatori di 11mila unità in Serie A poi scesa a 5mila in
seguito alla retrocessione in Serie B e ulteriormente calata in Lega Pro).
Il
Support your local team riesce ancora
discretamente ad attecchire nel Sud del Paese, dove è possibile assistere a
partite di Lega Pro e Serie D con una cornice di anche 2-3mila persone sugli
spalti. Numeri importanti, che sottolineano il forte interesse delle comunità
per la propria squadra, spesso dal
passato roseo e poi scesa nel baratro dei dilettanti (un esempio è il Messina,
dieci anni fa in Serie A, poi fallita, ripartita proprio dalla Serie D e adesso
militante in Lega Pro).
Nell’Italia
meridionale, infatti, il senso di appartenenza alle varie città – ed in
particolare a determinati quartieri – ha creato un forte senso di campanilismo
che non si è scalfito nonostante la permanenza delle squadre di riferimento in
categorie basse (spesso di tipo dilettantistico) oppure la scarsa attenzione
riversata verso realtà minori.
E
per fortuna che anche dalle nostre parti esiste, seppur in minima parte, un
senso di quel Support your local team
che tanto affascina, ma non sempre si riesce a replicare. Esportare
completamente questo modo di fare il tifo in Italia è pressoché impossibile, in
quanto nel nostro Paese il sentirsi parte di una comunità – ed il conseguente
sostegno verso i colori della squadra locale – è ancora un’ideale lontano
dall’essere realizzato. Vuoi per mancanza di voglia, vuoi perché seguire le
grandi del calcio va di moda oppure semplicemente perché sostenere un club
dilettantistico non regala soddisfazioni e non appaga.
I
tifosi inglesi, al contrario, in questo sono maestri e le favole del football
d’Oltremanica cui spesso siamo soliti assistere sono quelle che vedono
protagoniste piccole realtà di League One, League Two o addirittura di
Conference, capaci di riempire quasi sempre i propri stadi e regalare emozioni
uniche al tifoso che, in piedi e con la sciarpa attorno al collo, canta e
sostiene a squarciagola i colori della propria città. Sette giorni su sette.
Che si vinca o si perda. In qualsiasi categoria. Oltre il risultato.
Support your local team, ‘cause football without fans is nothing!
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