Londra, 7 maggio 2006. Una data
che nessun tifoso dell’Arsenal potrà mai dimenticare. Una data che, al tempo
stesso, tutti gli amanti del calcio inglese vorrebbe cancellare dal calendario.
Si disputa l’ultima giornata di Premier League che ha visto il Chelsea
laurearsi campione per il secondo anno di fila e Birmingham, West Bromwich e
Sunderland retrocedere in Championship. Soprattutto, però, quel 7 maggio 2006
si celebra l’addio ad Highbury dopo 93 anni di onorato servizio.
L’Arsenal è chiamato a salutare il proprio storico stadio affrontando il Wigan, sicuro di un più che onorevole posto a metà classifica. I Gunners si giocano con il Tottenham l’ultimo pass per l’accesso ai playoff di Champions League, ma si trovano con un punto di svantaggio rispetto agli stessi Spurs, impegnati in contemporanea sul campo del West Ham.
Qualcosa nell’aria fa capire che
tutto è troppo bello perché qualcosa possa andare storto. Troppi dettagli,
circostanze o semplici presagi rendono chiaro il fatto che alla fine degli
ultimi 90’ della stagione sarà l’Arsenal a festeggiare e il Tottenham e versare
lacrime amare. Lo si capisce, per esempio, pochi minuti prima dell’ingresso in
campo delle due squadre. Highbury è solito catino ribollente di passione,
vestito a festa di bianco e rosso sugli spalti. Solo lo spicchio riservato ai
tifosi dei Latics fa eccezione, addobbato di un blu che fa subito contrasto
cromatico con il resto delle gradinate. Il colpo d’occhio è notevole,
l’atmosfera è sublime, quasi malinconica. Tutti i 38.359 presenti sanno che dopo quel match diranno per sempre
addio allo stadio costruito nel 1913 che li ha visti ammirare le gesta di
campioni come Liam Brady, Alan Sunderland, Ian Wright, Charlie Nicholas e lo
storico capitano Tony Adams. Uno stadio divenuto un autentico tempio del
football, uno degli impianti in assoluto più belli e romantici dove giocare a
pallone, reso affascinante dalla facciata che richiamava lo stile decò, l'orologio
Clock End presente sulla
stessa e quello spiraglio che passando per strada faceva intravedere da
alcune fessure scorci di partita.
Per salutare degnamente un teatro di questo
genere, l’Arsenal è obbligato a vincere. E’ una forma di rispetto, di reverenza
che deve essere tributata a quel palcoscenico di quasi un secolo di successi. E
l’Arsenal, quella partita, la vince. Trascinato da un giocatore francese che
porta il numero 14 sulle spalle. Di nome fa Thierry, di cognome Henry. Per
tutti, semplicemente Titì Henry. Talento incompreso in Italia, fenomeno in
Inghilterra. Prelevato dalla Juventus nel 1999, Henry rappresenta l’eleganza
prestata al mondo del calcio: attaccante forte fisicamente, dotato di un ottimo
cambio di passo e capace di accarezzare il pallone come pochi altri, arriva a
segnare 228 reti in 337 partite con la maglia dei Gunners. Membro degli Invincibili del 2003-04, diventa il miglior
marcatore nella storia del club e si prende a suon di gol le chiavi di
Highbury, del quale ne diviene un autentico re.
E come tale, in quella partita contro il Wigan, si prende oneri e onori,
incassando applausi a scena aperta dal suo pubblico in completo visibilio.
Pronti-via e dopo 8 minuti Robert Pires strappa il primo degli ultimi boati di vita di Highbury. Alla fine saranno quattro, come i gol che i Gunners rifileranno ai Latics dopo essere clamorosamente finiti sotto per 1-2 alla mezz’ora. Uno svantaggio breve, effimero, durato solo due minuti e interrotto proprio da lui, il re di Highbury, Titì Henry che sale in cattedra alla sua maniera. Segnando. Prima pareggia i conti e manda le squadre al riposo sul 2-2, poi sigla la sua personale doppietta che permette all’Arsenal di rimettere la testa avanti. In contemporanea, nella parte orientale di Londra, il West Ham sta costringendo il Tottenham sull’1-1. Finisse così, Gunners in Champions League e Spurs in Europa League. Ma non finisce così. A quindici minuti dal termine, una trattenuta in area costa il penalty al Wigan. L’occasione è di quelle ghiotte: portarsi sul 4-2 per poi amministrare il finale di partita e sperare che da Upton Park non giungano notizie di gol. Quel rigore, ovviamente, non può che batterlo lui, Titì. Sistema la sfera sul dischetto, attende il fischio dell’arbitro e calcia. Pallone da una parte, portiere dall’altra. Game, set and match. Il seguito sono momenti da pelle d’oca e da lacrime al volto. Henry si inginocchia, bacia l’erba di Highbury, si rialza e compie un inchino a mani alzate rivolto alla sua gente, proprio sotto la North Bank e davanti all’orologio della Clock End che scandì per 93 lunghi anni ogni istante di vita di quel magico impianto. A rendere il tutto perfetto, arriva voce del gol del West Ham proprio pochi minuti dopo quello di Henry. Al triplice fischio, il verdetto recita: Arsenal in Champions League e Tottenham costretto ad accontentarsi della Coppa UEFA.
Si chiudeva così un’era, suggellata dal countdown finale scandito a gran voce da tutti i tifosi e dal successivo levarsi al cielo dei fuochi d’artificio che misero per sempre i sigilli su uno degli ultimi baluardi del calcio romantico. Quello che venne dopo è cronaca dei nostri giorni. Nel luglio 2006 venne inaugurato il nuovo Emirates Stadium, che prese il nome direttamente dalla compagnia aerea Emirates, struttura ultra-moderna e avveniristica con una capacità di 60.432 posti a sedere che lo hanno reso il secondo più grande stadio in Premier League alle spalle dell’Old Trafford. Highbury venne nel frattempo demolito e sostituito da un complesso residenziale da 655 appartamenti.
Lo scheletro del vecchio tempio fu
però mantenuto: la facciata Art Decò della tribuna est è rimasta lì, il
giardino interno ha ancora le dimensioni del vecchio campo e le quattro
palazzine hanno la stessa volumetria delle antiche tribune che conferiscono
al luogo un vago sapore di chiostro pagano pallonaro che non lascia
indifferenti.
In molti negli anni hanno
ribadito l’unicità del vecchio stadio, a cominciare dal manager Wenger: «L’atmosfera di Highbury è irripetibile e
all’Emirates ci manca, ma non aver cancellato del tutto questo posto è una
bella cosa». Tanti tifosi dell’Arsenal hanno imparato con il tempo ad
apprezzare il nuovo impianto e ad accettare la dura realtà del calcio moderno
che obbliga a stare al passo coi tempi, come testimoniato da un cartello nelle
vicinanza dell’Emirates che recitava “This
is not a revolution. It’s evolution”. Esattamente lo stesso concetto che
Massimo Marianella, autentico guru e massimo conoscitore della Premier League,
disse al termine della telecronaca: «Lo
impone il progresso, sicuramente lo piange il sentimento».
Eppure, passeggiando per le vie
limitrofe dove sorgeva Highbury, chiudendo gli occhi e trattenendo il respiro, è
possibile catapultarsi ancora all’interno della North Bank, ammirare la Clock
End e calcare persino quell’erba sacra sulla quale Henry appoggiò le sue
labbra. Certi luogo possono anche essere rasi al suolo, ma nemmeno il cemento
potrà mai a scalfire quell’aurora di leggenda, fascino e spiritualità che
aleggia ad Highbury, l’unica vera casa dell’Arsenal, The Home of Footall, dove il tempo pare essersi fermato e dove, ne
siamo sicuri, ognuno di noi ha lasciato un pezzo del proprio cuore.
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